Per rispondere al terrore ci vuole metodo e rieducazione

Lorenzo Vidino, nell’articolo apparso oggi su la Stampa dice che, per rispondere al terrore ci...

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Lorenzo Vidino, nell’articolo apparso oggi su la Stampa dice che, per rispondere al terrore ci vuole metodo ed elenca due priorità:

  1. aumentare le forze anti-terrorismo, altrimenti è inutile pretendere maggiore attenzione;
  2. lavorare sulla reintegrazione dei jihadisti.

L’articolo è titolato: Europa, serve una nuova strategia per rieducare gli jihadisti.

Leggiamolo:

Più controlli e integrazione: ecco che cosa possono fare gli Stati per impedire altri massacri senza snaturare secoli di civiltà

«Erano noti alle autorità». Dopo l’atroce attacco nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray si è diffusa la notizia che gli attentatori, come prima di loro quelli di Parigi, Orlando, Ansbach e molti degli altri posti che sono stati di recente insanguinati dalla follia jihadista, erano già stati in qualche modo «attenzionati». Anzi, nel caso specifico uno dei due, Adel Kermiche, che a soli 19 anni era il più vecchio del mini-commando, era stato da poco rilasciato per decorrenza dei termini.

Il giovane era stato detenuto per i suoi tentativi di unirsi allo Stato islamico e indossava un braccialetto elettronico. Il suo caso era andato ad arricchire la folta schiera (più di diecimila) dei «Fichier S», i files che i servizi francesi tengono sui soggetti radicalizzati.

È una dinamica comune a tutta Europa, sia a Paesi nell’occhio del ciclone del terrorismo come la Francia sia a quelli, come il nostro, che sebbene vedano un numero crescente di casi di radicalizzazione, fortunatamente non sono toccati dal fenomeno con la stessa intensità. Le forze anti-terrorismo di ogni Paese europeo sono a conoscenza di migliaia di casi di soggetti che danno chiari segnali di estremismo, siano essi una semplice frequentazione di siti jihadisti o, in casi più avanzati, contatti con ambienti o gruppi jihadisti e perfino esperienze precesse di combattimento e condanne. Ma questi comportamenti non rappresentano di per sé un crimine passibile di arresto. Giustificano un’attenzione elevata, che però le forze di polizia e intelligence europee, stremate dal numero elevatissimo di casi, non riescono sempre a prestare. Se poi aggiungiamo che spesso il passaggio dall’estremismo da tastiera, cioè dal passare le giornate su siti jihadisti, all’azione avviene in maniera fulminea e imprevedibile, si spiegano casi come quelli di Saint-Etienne-du-Rouvray. Giusto scandalizzarsi per le inefficienze dell’anti-terrorismo (e ce ne sono state tante di recente, si badi bene), ma bisogna capire tra che paletti si muovono.

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DOPO CHARLIE HEBDO  

Cosa fare allora? All’indomani di attentati c’è sempre chi invoca misure draconiane, in sostanza arrestare qualsiasi persona che abbia dato segnali di estremismo. Si fa in certi Paesi mediorientali, dove una parola sbagliata porta alla prigione senza condanna, ma menti fredde capiscono che un tale approccio comporterebbe lo snaturamento di secoli di civiltà del diritto occidentale. È chiaro che vanno aumentati gli effettivi per potenziare le capacità di monitoraggio, cosa che i francesi hanno fatto subito dopo Charlie Hebdo (gli agenti vanno però addestrati e ci vorrà del tempo prima di vedere i frutti della mossa). Ma ci si rende sempre più conto che le tattiche tradizionali dell’anti-terrorismo non bastano e soluzioni alternative sono necessarie.

È in tal senso che verte il Piano di Azione contro Radicalizzazione e Terrorismo recentemente varato dal governo francese. Il Piano prevede l’istituzione di dodici centri di reintegrazione per jihadisti da aprirsi nei prossimi mesi. Alcuni hanno come obiettivo il recupero di soggetti «sotto monitoraggio in quanto vulnerabili alla radicalizzazione» attraverso un doppio canale: da una parte attività di «de-indottrinamento» attraverso percorsi con psicologi e psichiatri, dialoghi di gruppo su temi come la religione e la geopolitica, e infine un lavoro individuale con l’obiettivo di allontanare gli individui da influenze radicali; dall’altra prevede una formazione professionale e dei tirocini. Altri centri saranno specificamente destinati a foreign fighters di ritorno.

MODELLO DANIMARCA  

Il nuovo programma francese è ispirato a modelli già usati in vari Paesi mediorientali ed europei. Nella città danese di Aarhus, per esempio, le autorità hanno da anni creato un programma per il reinserimento dei jihadisti che sono tornati in Danimarca dopo aver combattuto in Siria. I primi risultati paiono positivi e nessuno dei circa 30 soggetti sottoposti al programma si è macchiato di attività terroristiche dopo essere ritornato in patria.

Non sono certo buonismo e ingenuità che spingono le autorità danesi o francesi a vedere non solo un potenziamento dell’apparato anti-terrorismo ma anche l’introduzione di misure volte alla prevenzione della radicalizzazione e alla reintegrazione come possibili soluzioni alle crisi che stiamo vivendo. Non è possibile monitorare ogni Adel Kermiche d’Europa 24 ore su 24 – anche se si potesse legalmente non esistono le risorse per farlo. Né lo si può tenere in carcere ad aeternum senza che abbia compiuto un crimine. Possono il tipo di interventi previsti dal nuovo piano francese o dalla città di Aarhus convincere i vari Kerniche d’Europa a non seguire le sirene del Califfato? In certi casi sì, come varie esperienze dimostrano. In altri no, come nel caso di un jihadista tedesco recentemente coinvolto in un attacco contro un tempio Sikh a Essen nonostante fosse sottoposto a un programma di de-radicalizzazione. Ma visto che l’alternativa è lasciare i Kerniche d’Europa a se stessi, un tentativo di de-radicalizzazione appare la soluzione più sensata.

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vivicentro/ Per rispondere al terrore ci vuole metodo e rieducazione STANISLAO BARRETTA
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