Crolli nell’M5S della capitale: non reggono più neppure i patti interni

Al M5S della capitale non reggono neppure i patti interni Mattia Feltri ripercorre settanta giorni...

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Al M5S della capitale non reggono neppure i patti interni Mattia Feltri ripercorre settanta giorni di amministrazione Raggi passati tra topi, rifiuti e pressioni esterne. A poco più di due mesi dalle elezioni la squadra della sindaca M5S di Roma Virginia Raggi perde pezzi importanti: fuori il capo di gabinetto, l’assessore al Bilancio, i vertici dell’Atac (l’azienda del trasporto pubblico), e dell’Ama (rifiuti). E’ il segno, racconta Iacopo Jacoboni, che il patto tra la giunta e l’establishment capitolino non regge.

Topi, rifiuti, pressioni: i 70 giorni di Virginia Raggi, divorata dalla capitale

Dalla vittoria alle polemiche sugli stipendi d’oro. La sindaca paga l’assenza di empatia con i romani
ROMA Il problema della portavoce perfetta è che non c’è più la voce. Virginia Raggi era stata scelta da Gianroberto Casaleggio per ragioni non strettamente politiche: bella presenza, capacità di parlare, buona inflessione (a differenza del rivale interno, Marcello De Vito, di sfacciato timbro romanesco), e poi è donna, particolare che fa tanto modernità. E dunque Virginia doveva essere l’insuperabile prodotto del laboratorio a cinque stelle.

Un prodotto scelto senza dar peso alle competenze, proposto al mondo con abbondante anticipo per il buon esito delle primarie online, il semplice e altissimo collettore della volontà popolare, magari reinterpretata dallo stesso Casaleggio o dai ragazzi del direttorio, ma a portata di mano, una di noi. Qui era stato scritto che lei aveva vinto alla grande come avrebbe vinto alla grande chiunque altro, purché portasse il marchio di purezza di Beppe Grillo, e che Roma è città fra le più complicate d’Italia: in particolare, era curioso che una così vasta comunità, cinica, disincantata, anarchica a suo modo, convinta che le regole siano aggirabili, o interpretabili, o meglio trascurabili, portasse in Campidoglio una forza politica al grido onestà-onestà.

Ma fosse soltanto questo il punto di discrepanza fra popolo e sindaco. In Raggi sorprende la totale mancanza di empatia coi cittadini della cui volontà dovrebbe essere sommo custode, e con cui dovrebbe vivere in comunione: ieri alle cinque di mattina ha comunicato via Facebook le dimissioni del capo di gabinetto, e poi più nulla. Non una parola nemmeno sulle dimissioni successive, rassegnate a catena, non una riga sul sito istituzionale del Comune e nemmeno su quello di propaganda di Grillo, che in apertura ha conservato per tutto il giorno le invettive contro la campagna per la fertilità del ministro Beatrice Lorenzin. È il paradigma di come Internet, lo strumento della democrazia diretta, diventa con una magica giravolta lo strumento della lontananza.

Non c’è più la voce, Casaleggio, e l’impressione è che non sia nelle corde della portavoce perfetta il più ovvio presupposto di un sindaco romano: fare l’occhiolino al popolo, starci in mezzo, l’arringa e la pacca sulla spalla, se necessario con un tocco d’astuzia, e si sarebbe giurato che fosse la forza principale dei cinque stelle; persino Gianni Alemanno e Ignazio Marino, il primo a spalar la neve, il secondo per Roma in bicicletta, hanno galleggiato perché non si ritirarono nella casa di cristallo (altro che di vetro). Non è un difetto del movimento: Chiara Appendino a Torino, ma anche Federico Pizzarotti a Parma e Filippo Nogarin a Livorno, hanno una sintonia con la città che va oltre le loro prove da amministratori. Virginia Raggi è fedele a un parossismo orizzontale senza picchi e profondità. Esordisce in consiglio comunale leggendo cantilenante un testo prefabbricato, affronta l’emergenza dei rifiuti coinvolgendo Manlio Cerroni (l’uomo di Malagrotta, la più grande discarica d’Europa), indicato per settimane e mesi come l’anticristo dell’ecologia. E poi distribuisce stipendi inaspettatamente succosi, chiama consulenti dal nord Italia, infine si ritrova pressoché senza giunta a quasi novanta giorni dalle elezioni e a settanta dall’insediamento. E parrebbe tutto normale, niente che richieda uno scatto, un’eccezione alla lontananza anche malmostosa da Politburo, un affaccio al balcone, una diretta streaming, qualcosa.

Al di là di questi esordi molto più difficoltosi del previsto, stupisce che nessuno si ponga il problema di una città che conserva memoria della propria grandezza, abituata a divorare chiunque, bestie ben più grosse, figuriamoci una giovane donna povera di aggettivazione, di pathos, di romanità pura, una barchetta che va dove la porta l’onda, e infatti si presentò come un sindaco disposto a mollare tutto, se soltanto glielo avesse chiesto Beppe Grillo. Beh, se le cose non cambiano alla svelta, probabilmente Roma – coi suoi milioni di abitanti e le sue migliaia di anni, col suo spirito capoccia, la sua esuberante e comprensibile prosopopea – finirà presto col pronunciare l’eterno flaianesco «scànsate».

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