A quattro giorni da piazza San Carlo mancano ancora le “scuse alla città”

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A quattro giorni dal panico in piazza San Carlo la sindaca Chiara Appendino assicura che è “pronta ad assumersi le proprie responsabilità” ma manca ancora una parola semplice, le “scuse alla città per qualcosa che non ha funzionato”, come osserva il vicedirettore de La Stampa, Luca Ubaldeschi.

Il dovere di chiedere scusa

«Chiediamo scusa». A quattro giorni dalla tragedia (il termine è di Chiara Appendino) di piazza San Carlo, non abbiamo ancora sentito pronunciare queste parole da nessuna delle autorità coinvolte nella vicenda. Eppure, in questo stesso arco di tempo, è emerso con chiarezza come molte cose non abbiano funzionato nell’organizzazione e nella gestione della serata.

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L’elenco comprende errori e inadempienze: dagli scarsi controlli alla vendita di birra in bottiglia, dalla circolare sui piani di emergenza ignorata alla mancata riunione del comitato di sicurezza. Sono comprensibili gli appelli ad aspettare i risultati del lavoro d’indagine dei magistrati e va accolto con rispetto l’annuncio della sindaca di essere «pronta ad assumersi le eventuali responsabilità che dovessero emergere dall’inchiesta».

Tutto giusto, ma non basta. Perché di fronte all’evidenza dei fatti, le eventuali responsabilità penali sono soltanto una parte della storia.

Importante, anzi cruciale, ma non l’unica. Può bastare per un funzionario, anche di alto livello, ma non per chi ha un incarico politico, per chi è legato da un rapporto di fiducia ai cittadini che rappresenta.

Sabato scorso trentamila persone si sono raccolte in una delle piazze più belle e importanti di Torino. Prima ancora e al di là del risultato della finale, era un’occasione di festa, un momento di condivisione tra persone diverse per sesso, età, storie personali, ma unite da quell’incredibile collante identitario che è il tifo per una squadra. Se un evento di questo tipo finisce con più di 1500 persone in ospedale, con bambini feriti e terrorizzati, con una donna ancora in coma, con gente in fuga che cerca riparo in case e cortili privati, con vetrine distrutte e tracce di sangue nel salotto della città, certo che la risposta dovrà stabilire chi ha permesso che ciò accadesse e se davvero tutto è nato dall’idiozia di qualche tifoso, ma è doveroso anche aspettarsi che qualcuno dica: vi abbiamo accolto, ma non abbiamo saputo proteggervi, per questo vi chiediamo scusa.

Lo si deve ai feriti, ai papà che hanno portato per mano i figli, ai gruppi di amici che hanno preferito il maxischermo al televisore in salotto, ma anche a tutti i torinesi che hanno sentito dalle finestre gente urlare e picchiare i pugni sul portone di casa in cerca di aiuto.

Un anno fa Torino ha consegnato un notevole atto di fiducia a Chiara Appendino e la sindaca si è messa al lavoro con grande senso pratico, senza proclami, dimostrando di aver capito che amministrare è cosa diversa dal condurre una battaglia politica. La classifica che le ha assegnato la palma di primo cittadino più amato d’Italia ha confermato che l’opinione pubblica apprezza il suo operato, ma questo è il momento della sensibilità, di testimoniare che guidare una città importante vuol dire anche assumersi il coraggio delle scuse e soltanto dopo – come ha giustamente fatto – promettere che fatti del genere non si ripeteranno.

Perché chiedere scusa, per chi fa politica, non significa sempre ammettere di aver sbagliato. Significa semplicemente riconoscere che si tiene più al rapporto con chi ti ha scelto che alle opportunità del momento. Ricordarlo sarebbe di aiuto alla nostra politica in debito di fiducia.

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