I ministri cambiano poco. Molto cambia la dialettica

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Cambiano poco i ministri ma, scrive Francesco Bei su La Stampa, “quello che cambia davvero è il modo di presentare i problemi, la narrazione. Si è notata subito in Gentiloni una consapevolezza dei problemi del Paese diversa, lontana da quell’ottimismo a tutti i costi del presidente del Consiglio uscente”. Per questo Gentiloni ha parlato di “lotta alle diseguaglianze” prendendo atto del vero significato espresso dalla vittoria del “No” al referendum sulla Costituzione.

Ricucire la frattura con il Paese

La proprietà commutativa che ci hanno insegnato a scuola dice che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Non dovrebbe cambiare nulla quindi spostando un Alfano dal Viminale alla Farnesina o una Boschi da un ministero a una poltrona da sottosegretario, movimenti che profumano molto di Prima Repubblica e delle sue liturgie partitiche e correntizie. Così sembrerebbero aver ragione le opposizioni che, a proposito della staffetta Renzi-Gentiloni a palazzo Chigi, parlano di un governo-fotocopia, un governo copia-incolla, un esecutivo Avatar.

Ma purtroppo o per fortuna la politica non è solo aritmetica. E basta avvicinare un po’ lo sguardo, e lasciare per un momento da parte le semplificazioni della propaganda, per capire che le similitudini sono più apparenti che reali. Certo, la composizione è quella che è e forse inevitabilmente il nuovo governo sconta un tasso eccessivo di continuità con il precedente. Del resto anche nel Duemila, con la staffetta tra D’Alema e Amato, la squadra fu quasi identica, a parte un paio di ministri.

E tuttavia, al di là dei cliché, quello che cambia davvero è il modo di presentare i problemi, la narrazione, come usa dire oggi. Si è notata subito in Gentiloni una consapevolezza dei problemi del Paese diversa, lontana da quell’ottimismo a tutti i costi del presidente del Consiglio uscente. «Non si possono ignorare le forme di disagio, specie del ceto medio e del Mezzogiorno, in cui il lavoro è un’emergenza più drammatica che altrove», ha detto ieri Gentiloni presentando il governo. Che include, appunto, un ministro ad hoc per il Mezzogiorno e una ex sindacalista della Cgil al dicastero dell’Istruzione. Non a caso proprio al Sud e tra gli insegnanti si è verificato lo scollamento più grande tra il renzismo e il paese reale, nonostante i miliardi destinati alla Buona Scuola e la decina di patti territoriali siglati in questi mesi nel Meridione. Come se, seppur tardivamente, il Pd avesse finalmente compreso la lezione del referendum – il No ha prevalso non per l’attaccamento degli elettori al bicameralismo paritario o al Cnel ma per la rabbia degli esclusi, dei dimenticati, dei giovani Neet – e provasse a ricucire quella frattura. Sperando che non sia troppo tardi.

Ma c’è un’altra ragione per cui sarebbe un abbaglio considerare Gentiloni un clone politico di Renzi, un burattino. Intanto perché il nuovo presidente del Consiglio, come ha scritto con acume la Sueddeutsche Zeitung, era già renziano prima che l’ex sindaco di Firenze facesse irruzione sulla scena politica. Ovvero, fin dai tempi di Rutelli e della Margherita, Gentiloni è sempre stato sulla frontiera più avanzata di una sinistra riformista di tipo nuovo, libera dall’ancoraggio novecentesco della Ditta comunista. Ma soprattutto, a differenziarlo oggi da Renzi, c’è la questione non secondaria dei tempi del governo. Sarà un esecutivo-yogurt, con la scadenza di poche settimane? O andrà avanti finché avrà i voti in Parlamento? La questione per ora resta sottotraccia, ma c’è da scommettere che, al di là della lealtà di Gentiloni a Renzi, è destinata a riproporsi presto. E’ una dialettica inevitabile, perché in natura non esiste presidente del Consiglio che non voglia proseguire il suo mandato, mentre l’esigenza del segretario Pd è andare al voto nel più breve tempo possibile.

Ieri Renzi, durante la direzione del Pd, si è spinto a definire le elezioni «imminenti», mentre Ignazio la Russa, riferendo ai giornalisti il colloquio appena avuto con il nuovo premier, ha affermato che l’intenzione è «restare finché avrà la fiducia, quindi anche fino alla fine della legislatura». La data preferita da Renzi per le urne sarebbe il 4 giugno, domenica di Pentecoste. Gentiloni sarà d’accordo a dimettersi così presto? Ma soprattutto, Mattarella riterrà opportuno sciogliere le Camere e far gestire il G7 di fine maggio in Italia, sotto presidenza italiana, da un governo dimissionario, con una campagna elettorale in corso? Sono domande che troveranno risposta solo nelle prossime settimane.

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