Milano: le aiuole della polemica

Dopo le palme, a stretto giro, in piazza Duomo a Milano arrivano i banani, sempre...

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Dopo le palme, a stretto giro, in piazza Duomo a Milano arrivano i banani, sempre pagati da uno sponsor. «La polemica riparte da capo, non c’è pace per quelle aiuole», scrive Alberto Mattioli.

Dopo le palme, a Milano anche i banani

Dopo le palme, i banani. Non c’è pace per quelle aiuole. In piazza Duomo a Milano succede che, dopo la quarantina di palme, siano stati piantumati anche i cinquanta banani, sempre griffati Starbucks, sponsor dell’operazione-giungla con vista Madunina. E naturalmente la polemica è ripartita da capo, tipo «Ripassa dal via» del Monopoli.

Ecco una scelta di invettive di giornata: «Mancano solo le scimmie» (Roberto Maroni, governatore della Lombardia); «Le piante non hanno colpa: i cretini sono gli esseri umani che hanno deciso e permesso questo scempio» (Matteo Salvini); «Si completa l’africanizzazione di Milano. Saranno contenti immigrati e clandestini che si sentiranno a casa loro» (Riccardo De Corato, capogruppo di Forza Italia in Regione). I «Sentinelli di Milano», versione laica e sfottente dei vegliatori cattolici, reagiscono chiamando alla mobilitazione: la prossima domenica (delle palme?), tutti in piazza, e portando «una pianta, un frutto o un ortaggio di qualsiasi forma, colore e provenienza per dire che la diversità è un valore». Titolo della manifestazione: «Piantatela lì».

Adesso aspettiamo solo che siano sistemati anche i previsti ibiscus e il tormentone ripartirà da capo. Intanto il sindaco, Beppe Sala, partito «da una posizione non proprio entusiasta», dice che «magari, fra due o tre mesi il giardino mi piacerà», insomma il suo è un gradimento a rate. Interpellato anche il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, che si rifiuta di dire se palme e banani gli piacciano, ma ricorda che «le sovrintendenze sono autonome e io non dò indicazioni». Infatti la sovrintendenza competente (poco, secondo gli anti-palma) il suo benestare l’ha già dato da tempo, limitandosi a far abbassare un po’ l’altezza degli alberi e a ribattezzare il progetto: da «Foresta tropicale milanese» a «Giardino milanese tra il XIX e il XX secolo», visto che all’epoca in effetti le palme in piazza Duomo c’erano (con qualche perplessità per i pro-palma più politicamente corretti: oddìo, invece che inclusiva e «globale», la palma e il banano saranno mica colonialisti?).

Finito di ridere, la querelle della palma si presta però a un paio di considerazioni serie. La prima è che, in ogni caso, è un buon segno che l’urbanistica e l’arredo urbano diventino un oggetto di discussione politica, e non è detto che siano meno appassionanti delle scissioni bizantine del Pd o delle chat della signora Raggi. Per esempio, a Milano si parla anche di riaprire i Navigli (con Salvini stavolta schierato in prima persona per il sì), che sarebbe un ottimo modo di organizzare il futuro tornando al passato. Seconda considerazione: la disputa è la dimostrazione «a contrario» del buono stato di salute di Milano. Evidentemente, non ci sono problemi più pressanti su cui dividersi. E molte città italiane sarebbero forse contente di avere al primo punto dell’ordine del giorno delle polemiche una questione così grave. A Roma, per dire, ci farebbero la firma.

Quanto al banano, nessuno ha ricordato che uno degli italiani più illustri e più nazionalpopolari, quello che pianse e amò per tutti, fece il diavolo a quattro per procurarsene uno e piantarlo a casa sua, a Sant’Agata, nella Bassa piacentina, dunque Padania più profonda. Si chiamava Giuseppe Verdi e il suo banano è ancora lì.

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