Grillo scopre la realpolitik, chiarisce che il partito è lui e vara un piccolo editto

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La realpolitik, commenta Andrea Malaguti, porta il Movimento sempre più vicino ai partiti tradizionali. E l’imperativo è tenere al sicuro Virginia Raggi, Sindaca di Roma. I Cinquestelle diventano garantisti, rimettendo ai probiviri la decisione sull’opportunità che si dimetta chi è coinvolto in vicende giudiziarie. Cosa che non è piaciuta a buona parte della base.

Il realismo che mette fine all’utopia

Il nuovo codice di comportamento del Movimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in vicende giudiziarie, è in realtà un piccolo editto in cui Beppe Grillo, con un linguaggio che sta a metà strada tra Forlani con l’influenza e il regolamento di un circolo ricreativo della pesca, dice sostanzialmente tre cose.

La prima l’aveva già teorizzata Piero Gobetti: l’azione distrugge l’utopia.

La seconda ha un vago sapore berlusconiano: non saranno i giudici con un avviso di garanzia a decidere se e quando porre fine all’esperienza di Virginia Raggi alla guida della Capitale. Né, ma qui siamo ai dettagli, a decapitare altrove le giunte pentastellate.

La terza non era mai stata sottolineata con tanta franchezza: il partito sono io.

Il funerale all’utopia di un Movimento guidato con una logica immacolata da tumulto dei Ciompi – noi siamo i buoni i cattivi sono il resto del mondo – è stato celebrato con un post che dice: «La ricezione, da parte del portavoce, di “informazioni di garanzia” o di un “avviso di conclusione delle indagini” non comporta alcuna automatica valutazione di gravità dei comportamenti potenzialmente tenuti dal portavoce stesso». Si tratta di concetti già espressi dal codice di procedura penale – nella locuzione «informazione di garanzia» la parola chiave è garanzia – ma è interessante notare come il giustizialismo esasperato da distruttori della Casta, abbia lasciato il campo alla realpolitik, con una virata legittima ma destinata a sovrapporre per sempre i 5 Stelle ai partiti tradizionali. Soprattutto a quelli di tipo leaderistico.

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Chi vuole Palazzo Chigi è costretto da sempre a modificare il senso di sé e a ridefinire, nel bene e nel male, il quadro dei rapporti con la magistratura: straordinaria e accerchiata quando indaga gli altri, manipolata e a orologeria quando entra nel nostro cortile.

Nel Nuovo Codice di Comportamento sono molti i distinguo che hanno l’obiettivo di non cancellare del tutto la storia del Movimento (a cominciare dall’allontanamento di chi è condannato in primo grado o magari ha patteggiato la pena), ma nella sostanza Grillo si arroga un diritto superiore a quello dei giudici e, di fatto, anche a quello dei cittadini (ai quali sottopone un testo da ratificare, non da discutere), avocando a sé la facoltà di stabilire quando un eletto abbia agito in modo disonorevole indipendentemente dal corso delle indagini. Del resto un Garante che fa le regole garantisce più che altro se stesso.

«Il comportamento tenuto dal portavoce può essere considerato grave dal Garante o dal Collegio dei probiviri (…) anche durante la fase di indagine”, e “la condotta sanzionabile può anche essere indipendente e autonoma rispetto ai fatti oggetto dell’indagine», dice ancora il codice, rifacendosi involontariamente a una teoria espressa da Matteo Renzi quando chiese le dimissioni del ministro Lupi per la vicenda del Rolex d’oro del figlio: non esistono solo i reati. Esiste anche l’opportunità politica. Valeva per Renzi e vale oggi per Grillo, che non vuole sentirsi sotto ricatto della magistratura a Roma ma pretende di essere libero di liquidare la Sindaca alla bisogna e in funzione delle necessità del Movimento. La Raggi, del resto, è per lui un’eredità di Gianroberto Casaleggio. Non l’ha scelta, la tollera a fatica e la considera un problema che deve essere tenuto a bada. Il controllo è la sua vera ossessione. Anche così si spiega la norma che recita imperativa: «I portavoce, quando ne hanno notizia, hanno l’obbligo di informare immediatamente e senza indugio il gestore del sito dell’esistenza di procedimenti penali in corso».

E al di là della bizzarria dell’obbligo di riferirsi al «gestore del sito» (nuovo organo partitico impersonale, indistinguibile e insondabile), è evidente che il dettato sia il frutto del caso Pizzarotti. Il sindaco ribelle di Parma – ribelle perché abituato a ragionare con la sua testa – non segnalò tempestivamente i suoi guai. Un peccato veniale diventato la scusa per farlo fuori e trasformato in pietra angolare del rigoroso meccanismo iper-direttivo di un Garante Grande Fratello che dà ogni giorno di più l’impressione di essere diventato uno di quegli uomini che hanno smesso di cercare un senso rivoluzionario nelle cose, ma continuano a esibirsi sul palco per dimenticare la propria incoerenza.

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lastampa/Il realismo che mette fine all’utopia – ANDREA MALAGUTI

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