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ROMA. Nella corsa al Campidoglio dai candidati presentate ricette molto simili l’una all’altra A giudicare...

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ROMA. Nella corsa al Campidoglio dai candidati presentate ricette molto simili l’una all’altra

A giudicare dal profilo dei candidati, la campagna elettorale per il posto di sindaco della Capitale avrebbe dovuto regalare scintille. Colpisce, invece, esattamente il contrario. E non soltanto perché le ricette dei quattro principali competitori siano in gran parte simili. In ciascuno di loro, diciamo la verità, si nota l’assenza un’idea forte. Sembra una partita di calcio nella quale nessuno vuole prendere rischi, accontentandosi di un deludente pareggio che comunque può significare la qualificazione al turno successivo. Primo, dunque, non prenderle. E non lasciare spazi all’avversario.

L’esempio classico è quello della proposta del salario minimo ai dipendenti comunali, avanzata da Alfio Marchini e che pare aver raccolto anche il consenso di Giorgia Meloni. La retribuzione dei 24 mila dipendenti del Campidoglio, come del resto quella degli statali, degli infermieri, dei lavoratori delle Regioni e di chiunque presta la propria opera nel settore pubblico, non assicura certo un tenore di vita da Nababbi. Ma se esiste un grosso problema al Comune di Roma è proprio l’inefficienza e la scarsa produttività, problemi chiaramente connessi alla mancanza di meritocrazia. Andrebbe ricordata qui la vicenda annosa del salario accessorio, quella porzione aggiuntiva di stipendio distribuito a pioggia a tutti i dipendenti comunali indipendentemente dalle «prestazioni accessorie». Un sistema che il ministero dell’Economia aveva già giudicato illegittimo e che per questo la giunta precedente aveva messo giustamente in discussione, quantomeno in linea di principio: e si può certo affermare che i guai di Marino sono cominciati da qui.

Promettere adesso 1.500 euro al mese come stipendio minimo a tutti i dipendenti del Comune di Roma significa andare in direzione esattamente opposta. Comprendiamo l’obiettivo: i voti di 24 mila famiglie, in una contesa elettorale sul filo del rasoio, possono risultare decisivi. Ma come in nessuna scuola il 6 politico è stato sinonimo di massimo profitto, abbiamo seri dubbi che la demagogia del salario minimo garantisca massima efficienza amministrativa a una macchina comunale piuttosto scassata. Nella quale bisognerebbe innanzitutto cambiare molti ingranaggi, anche fra quelli più piccoli: come sanno bene tutti i candidati, anche se nessuno lo dice. Ma tant’è.

Al voto mancano meno di 20 giorni. Non resta a questo punto che sperare in qualche colpo d’ala capace di riportare in quota una campagna elettorale che procede a volo radente. Forse come mai prima d’ora.

vivicentro.it/opinioni / corrieredellasera / Elezioni a Roma, una campagna senza scintille e senza idee forti. Sergio Rizzo

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