Una vera e propria trappola realizzata non dalla natura, ma dalla mano dell’uomo

Come scrive Mario Tozzi, «quando in un luogo ci sono le abitazioni sott’acqua, nel posto...

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Come scrive Mario Tozzi, «quando in un luogo ci sono le abitazioni sott’acqua, nel posto sbagliato ci sono sempre le case, non il fiume»
 Una trappola costruita dall’uomo

Quando in un luogo ci sono le abitazioni sott’acqua, nel posto sbagliato ci sono sempre le case, non il fiume. Una considerazione che vale anche quando vengono colpite le città e i luoghi dove gli uomini vivono da sempre. Fatta questa doverosa assunzione di principio, il dettaglio di questi ultimi eventi alluvionali è tristemente lo stesso di quelli passati e comprende, nell’ordine: un’allerta meteo che viene spesso non compresa o sottovalutata, una perturbazione che evolve secondo meccanismi non esattamente lineari, un territorio complessivamente sempre più impreparato, cittadini che attuano comportamenti incomprensibili e contro-intuitivi e amministratori impreparati e spesso colpevoli.

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Per prima cosa si dovrebbe capire che le previsioni meteo, oggi molto più precise che in passato, non sono perfette, soprattutto quando si sviluppano perturbazioni a carattere violento come quelle v-shaped (a forma di V) che sembra si siano scatenate ieri notte. Sono temporali «autorigeneranti», cioè che trovano nuova alimentazione nel passaggio sopra mari caldi, come oggi è il Tirreno. E tendono a diventare la regola. Il caso di Irma e degli uragani del Golfo del Messico insegna che le previsioni vanno corrette in corso d’opera anche alle nostre latitudini. Cioè vanno seguite e «aggiustate», così come si fa per gli uragani, che cambiano più volte direzione, velocità e stima della forza sviluppata.

Poi non si dovrebbe dimenticare la lezione del passato: Livorno era stata duramente colpita, con modalità analoghe, nel 2009 e poco conta il confronto dei mm di pioggia di allora (poco meno di 100 in due ore) contro quelli di ieri (attorno a 200 nello stesso lasso). Le immagini di ieri sono le medesime di oggi. Esattamente le stesse, con le acque e il fango che invadono strade e ferrovia e con le persone in difficoltà nei piani bassi e nelle cantine. E’ davvero impressionante che si possa ancora oggi morire ad un piano basso per un’alluvione: è presto per comprendere la dinamica esatta, ma, se piove, le scale le dovresti salire fino al tetto, non scenderle. Sono i due tipici problemi del confronto degli italiani con gli eventi naturali che diventano catastrofici solo per colpa nostra: mancanza di esercizio della memoria e scarsa conoscenza dei fenomeni stessi. Come se i morti e i danni delle alluvioni dipendessero dal fato e non dal nostro atteggiamento.

Questo è il punto cruciale: quando in due ore piove la stessa acqua che un tempo cadeva in sei mesi si dovrebbe guardare piuttosto in terra che non al cielo. Soprattutto dopo un estenuante periodo di siccità, che ha reso praticamente impermeabile il suolo, e soprattutto dove cemento e asfalto hanno peggiorato la situazione, come in tutte le nostre città, ormai ostacolo alla naturale infiltrazione delle piogge in profondità (così che queste piogge rischiano anche di non ricaricare le falde sotterranee). Tutta l’acqua così resta in superficie e invade città, case e infrastrutture, visto che i corsi d’acqua sono sbarrati e spesso tombati e non possono evacuare tutto quel carico.

Chi amministra i territori a rischio naturale (ormai ben noti), terremoti o alluvioni che siano, non dovrebbe trincerarsi dietro il fatto straordinario o l’evento mai visto prima. Intanto perché, a guardar bene, di eccezionale non c’è quasi mai niente e l’evento che ieri accadeva ogni vent’anni, oggi avviene ogni anno. E secondo perché il cambiamento climatico in atto ha impresso ai fenomeni meteorologici un’accelerazione e un’imprevedibilità che impongono comunque un cambio di marcia significativo. Che va messo in opera durante tutto l’anno, perché la prevenzione si fa quando non piove e si fa con coraggio, attraverso una pianificazione che tenga conto degli eventi naturali, e arrivando fino a spostare le persone dai luoghi più pericolosi perché, in quei luoghi, il rischio lo hanno creato proprio loro. Non è questione di argini o barriere (sempre meno utili), ma di cultura.

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