Il paradosso dei sismi italiani: l’analisi del geologo Mario Tozzi

Sono meno potenti, ma più distruttivi. E’ questa l’analisi che il geologo Mario Tozzi fa...

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Sono meno potenti, ma più distruttivi. E’ questa l’analisi che il geologo Mario Tozzi fa degli eventi sismici che hanno colpito il nostro Paese. Un territorio con mini-faglie ed epicentri a poca profondità che rendono lo scenario italiano quasi unico al mondo.

Il paradosso dei sismi italiani. Meno potenti, ma più distruttivi

Scenario quasi unico al mondo di mini-faglie e di epicentri a poca profondità

Non sappiamo ancora quale sarà l’evoluzione di questa crisi sismica, ma sappiamo che i terremoti italiani hanno caratteristiche talmente peculiari da renderli del tutto diversi da quelli giapponesi o andini, così come pure da quelli californiani o turchi.

L’origine del terremoto è sempre la stessa: uno scarico repentino di energia accumulata dalla rocce nel tempo. E, in ultima analisi, il gioco reciproco delle placche tettoniche (se si eccettuano i terremoti vulcanici), in cui si può considerare scomposta la crosta terrestre. Ma ecco che, già sotto questo profilo, i terremoti italiani sono caratteristici, perché non entra in gioco solo la placca africana che si infila sotto quella europea. Ci sono blocchi più piccoli (microplacche), come quello adriatico e quello siculo-ibleo, che complicano l’interazione fra le placche più grandi, tanto da indurre terremoti fra i più disastrosi della Penisola, seppure dimenticati, come quello di Catania del 1693. Non solo: le velocità di interazione nel Mediterraneo sono minori di quelle sudamericane o giapponesi e dunque le energie in gioco sono più basse e le magnitudo, di conseguenza, più piccole. In Italia non si è mai superata magnitudo 7,5 Richter, anche se nessuno potrebbe escludere questa eventualità. I terremoti più forti mai registrati al mondo sono, invece, di magnitudo 9 Richter, in Giappone, Indonesia e Cile, non nel Mediterraneo.

Non è però soltanto questione di magnitudo, da noi generalmente più basse, e di placche tettoniche, da noi più frammentate, ma è anche questione di faglie, di orografia e di terreni. In Italia, infatti, non è riconoscibile una grande struttura che origina i terremoti, come la faglia di San Andreas (in California) oppure quella della Valle del Giordano oppure quella nord-anatolica. Nei primi due casi si tratta di faglie lunghissime (centinaia di km): «faglie trasformi» (come si chiamano), in cui le placche scorrono le une accanto alle altre, suscettibili di generare sismi di magnitudo 7,5-8 Richter. Oggetti geologici non presenti sul nostro territorio, dove generalmente, i terremoti derivano da faglie di lunghezza limitata (20-40 km), che sono spesso interrotte da altre faglie più corte, fino a comporre un quadro complesso. Perlopiù, poi, sono faglie attraverso cui l’Appennino si assesta a quote topografiche inferiori, con un movimento in verticale, non uno scorrimento laterale.

Abbiamo dunque strutture geologiche a scala più ridotta e meno energie sismiche, perché da noi i terremoti fanno più vittime e danni che in Giappone o in California? Una prima risposta può essere che l’Italia è un Paese di montagna e questo è un fattore che aggrava i danni. Ma le montagne ci sono pure in Giappone e nelle Ande. Un’altra causa è la scarsa profondità ipocentrale dei terremoti italiani, che difficilmente superano i 30-40 km di profondità e, anzi, si attestano attorno ai 10 km. Le onde sismiche, dunque, non si attenuano perché attraversano uno spessore meno cospicuo di rocce rispetto a quanto accade, per esempio, in Giappone oppure in Cile, dove gli ipocentri sono a centinaia di km di profondità. Poi ci sono le rocce: spesso edifici e paesi vengono distrutti dall’«effetto-sito», l’amplificazione che le onde sismiche subiscono in corrispondenza di terreni più «molli».

Ma quello che conta di più è il patrimonio edilizio: vetusto e poco controllato. Il terremoto distrugge abitazioni rurali di collina fatte con ciottoli di fiume e malte scadenti oppure costruzioni più recenti in cemento armato, però mal progettate e peggio realizzate. Infine sembra anche esserci un’incapacità, tutta italiana, di imparare da secoli di catastrofi: in ogni Paese a rischio sismico, prima o poi, si cambia rotta, magari dopo un terremoto devastante, come negli Usa (dopo San Francisco, 1906) o in Giappone (dopo il 1855 e il 1923). Da noi nemmeno il terremoto del 1908 è stato sufficiente: qualche regola un po’ più rigida, a cui ha fatto seguito soltanto una più raffinata capacità di deroga. In tutti i casi le energie sprigionate dai nostri terremoti, per quanto ridotte e frammentate alla scala italiana, sono ancora più che sufficienti a devastare un Paese costantemente impreparato.

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