Risveglio da coma: il caso di Messina riapre il dibattito

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A Messina una 68enne si è svegliata dal coma dopo 4 anni : il caso riapre il dibattito del confine tra la vita e la morte, come scrive Antonio Scurati.

Le domande che poniamo all’aldilà

Una donna si risveglia dopo quattro anni di coma profondo. Smentendo ogni prognosi medica, rivive. Qual è la prima domanda che le rivolgereste? Ovvio, mi direte: le chiederei cosa c’è di là. Oltre la coscienza, oltre la vita. Mica così ovvio, invece. Tra le tante idee antichissime morte a questo inizio di Ventunesimo secolo, forse l’idea dell’aldilà è la più morta di tutte.

I risvegli, i redivivi, i ritornanti popolano l’odierno immaginario mediatico eppure il fuoco del racconto si concentra quasi sempre sul difficile reinserimento nel loro mondo quotidiano più che su quell’altro mondo da cui ritornano, sul loro reintegrarsi nella vita a noi nota più che sull’ignoto di cui potrebbero farsi ambasciatori. L’aldilà trapela attraverso piccoli segni – interruzioni di corrente elettrica, ferite sui corpi – ma non interessa davvero. Pare quasi che, alla luce di questo soprannaturale crepuscolare di terzo millennio, l’elemento miracoloso sia la nostra esistenza ordinaria, rivelata al nostro sguardo cieco da questo brillio di straordinario.

Il modo in cui l’Ansa ha battuto la notizia del misterioso risveglio sembra dimostrarlo: «Dopo 4 anni di coma si risveglia e intona canzoni di Massimo Ranieri». Un altro modo per dire che non esiste altra vita oltre questa. L’intero nostro orizzonte è racchiuso nel cerchio di un cantante melodico. Alla musica leggera si limita il repertorio dell’universo. Al miracoloso, al numinoso, al portentoso, non chiediamo nulla di più di quel che già conosciamo, di quel che siamo. Forse per malinconia, forse per paura. Temiamo che, se osassimo la domanda delle domande, riceveremmo la stessa risposta ottenuta da Melisandre quando, ne Il trono di Spade, dopo averlo riportato in vita, chiede a John Snow: «Ascolta, quando sei morto, dopo le pugnalate, dove sei andato? Che cosa hai visto?». «Nulla … assolutamente nulla», le risponde il più celebre ritornante del nostro tempo senza aldilà.

La scomparsa dell’orizzonte metafisico, la «morte di Dio», il disincanto del mondo, la secolarizzazione, sono state le questioni filosofiche fondamentali dell’età moderna, i temi capitali di un’epoca oramai alle nostre spalle e non ho certo la pretesa di aggiungervi qualcosa in queste quattro righe. Mi pare, inoltre, del tutto evidente che, almeno in Occidente, si sia conclusa anche l’epoca della cosiddetta «sopravvivenza erratica del sacro», vale a dire il periodo in cui la ricerca del senso ultimo della vita umana e della posizione dell’uomo nel cosmo, tramontata la visione religiosa del mondo, perdurava andandosene a zonzo nei miti della modernità: il progresso scientifico e sociale, le grandi ideologie totalitarie, la religione della politica da cui ci si attendeva una rinascita tutta terrena.

Rimane da chiedersi, però, che cosa ne è di noi quando gli interrogativi che hanno guidato l’umanità fin dal suo apparire sulla terra trovano posto soltanto ai margini di una breve in cronaca, quando ogni residua metafisica è lasciata alle serie di una televisione a pagamento. Quando sei morto, dove sei andato? Che cosa hai visto? Cosa c’è oltre la vita? E che cos’è la vita se non trascende la morte? Sono interrogativi in compagnia dei quali non si può vivere ma senza i quali la vita non ha senso.

Ma poi, forse, la domanda rimane la stessa ed è cambiato solo il modo di porla. Chi l’ha detto, in fondo, che un romanzo o una serie tv valgono meno di un sermone o di un trattato politico? In un suo libro di alcuni anni fa, Carlo Ginzburg osservava la somiglianza profonda che lega tutti i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà; e concludeva affermando che raccontare significa sempre parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati, metaforicamente o letteralmente, là e allora, che la capacità di partecipare al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quello dell’invisibile, proprio questo sarebbe il tratto distintivo della specie umana.

Forse resta sempre vero, qualunque sia il genere del racconto.

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