EUGENIO SCALFARI: Un ministro dell’Interno europeo per battere il terrorismo

EUGENIO SCALFARI EUGENIO SCALFARI – IL DIBATTITO in corso sul terrorismo orribile dell’Is tocca un’infinità...

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EUGENIO SCALFARI

EUGENIO SCALFARI – IL DIBATTITO in corso sul terrorismo orribile dell’Is tocca un’infinità di argomenti: il nostro modo di comportarci per vincere la paura, il tema dei rifugiati e dei migranti, le moschee da chiudere o da aprire, l’integrazione dei musulmani o la loro cacciata, la guerra guerreggiata in Siria, in Iraq e in Libia. Insomma una selva di problemi che si intrecciano l’uno con l’altro creando una sorta di labirinto pieno di contraddizioni difficilissime da risolvere senza però affrontare il punto-chiave perché non viene formulata la vera domanda che dovremmo porci.

La domanda è questa: perché i terroristi manovrati ed istruiti dal Califfato si uccidono per uccidere gli altri, innocenti e incolpevoli?

Nella storia del mondo moderno non esistono altri esempi del genere, salvo i kamikaze giapponesi che, alla guida di aerei carichi di bombe, si lanciavano contro le navi da battaglia americane nell’ultima guerra mondiale.

Anche loro si uccidevano per uccidere il nemico, ma una differenza c’è rispetto ai kamikaze dei terroristi dell’Is: i piloti giapponesi combattevano una guerra e si uccidevano per uccidere il nemico, quel nemico. I terroristi dell’Is uccidono un nemico creato da loro, persone di qualunque razza, qualunque religione (o nessuna), qualunque nazionalità, qualunque età, bambini compresi, qualunque luogo purché affollato: uno stadio sportivo, un teatro, un bar, un aeroporto, una stazione, una metropolitana. Sono quindi molto diversi dai kamikaze giapponesi.

Qualcuno li ha paragonati ai nazisti, ma è un esempio sbagliato: i nazisti uccidevano gli ebrei, gli zingari, i diversi dalla loro razza ariana e comunque non uccidevano se stessi.

Altri portano come analogo esempio quei soldati che in una guerra vengono incaricati di missioni che li porteranno alla morte, ma anche questo è sbagliato: quei soldati hanno un x per cento molto elevato di lasciarci la pelle ma una possibilità di salvarsi comunque esiste, anche se si trattasse dell’1 per cento. Il rischio è altissimo ma non sono loro ad uccidersi.

Per concludere su questo punto: i kamikaze dell’Is sono un caso unico al mondo e agiscono dovunque, dal Medio all’Estremo Oriente, in Africa, in  America e soprattutto in Europa. Però l’Europa e il Medio Oriente sono i loro principali teatri d’operazione.

Questo è il quadro da decifrare e in questo quadro stanno i nostri comportamenti per annientare l’Is e le sue cellule impazzite.

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Quanti sono i kamikaze e le loro cellule universalmente diffuse ? E qual è la centrale di comando che le guida?

La centrale di comando era fino a un paio di mesi fa unica: il territorio dominato dall’Is, assurto ormai a livello di uno Stato, con le sue gerarchie: un Capo, la sua squadra di collaboratori, le sue milizie combattenti come un vero e proprio esercito, i suoi organi di informazione e di efficace propaganda, i suoi reparti che istruiscono i kamikaze e li convincono a diventare tali.

Il territorio è triconfinario: confina con la Siria, con l’Iraq, con la Turchia ed anche con il Kurdistan. Ma negli  ultimi tempi ha creato comandi dislocati e in parte autonomi. Uno di essi opera nel Sinai, un altro in Cirenaica.

Su questo terreno è in corso una guerra vera e propria con alterne vicende, salvo in Libia, dove questa guerra non c’è.

Le cellule sono sparse ovunque; la loro consistenza numerica può sembrare assai scarsa rispetto all’estensione del territorio sul quale operano, ma è molto elevata se paragonata ai compiti ad essa affidati: il personale delle cellule è valutato intorno a 20-30 mila persone, ma i possibili kamikaze sono più o meno la metà: 10-15 mila. Sono pochi? No, per quel che debbono fare è un numero molto elevato. In Francia e in Belgio sono stati impiegati una sessantina di terroristi; i kamikaze erano una ventina, ma quelli che hanno operato anche meno, creando tuttavia danni materiali molto elevati e danni psicologici e politici elevatissimi.

Somigliano al terrorismo delle Brigate rosse o di altre analoghe organizzazioni che operarono negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Assolutamente no. Nessuno di quei terroristi fece mai il kamikaze e comunque operavano avendo in mente un programma politico, l’aspirazione religiosa non c’entrava in nessun modo.

E noi, noi europei e noi italiani, che cosa possiamo e dobbiamo fare?

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Convincerli a desistere dal fare i boia a prezzo della loro vita? Tentar non nuoce, dice il proverbio, ma in gran parte sarà tempo sprecato.

Dedicarci a mantener neutrali o meglio ancora a schierare contro l’Is e le sue cellule operative i musulmani residenti in Europa? Questo sì, è un compito incombente e non può significare altro che un processo di integrazione con tutto ciò che comporta in termini di occupazione professionale. Non vale soltanto per i musulmani ma anche per le periferie cittadine, le banlieue trasformate in ghetti, dove con la rabbia, la protesta, la violenza predispongono alcuni alla  seduzione del Califfato.

Infine c’è l’obiettivo principale da realizzare: costruire l’unità, la vera e propria unificazione dell’Europa. Economica e insieme politica. Creare una nuova architettura e al tempo stesso risvegliare un sentimento europeista che negli ultimi anni si è molto indebolito o addirittura del tutto scomparso, sostituito da un sentimento opposto, antieuropeista, antidemocratico, antimigranti, nazionalista vecchia maniera.

Ho scritto più e più volte su questo obiettivo da perseguire risollevando la vecchia bandiera di Altiero Spinelli, di De Gasperi, di Adenauer e di Schuman; ma oggi essa è diventata una necessità. Per rispondere politicamente ai boia  del Califfato e all’Europa come nemico, l’unificazione politica del nostro continente è il solo modo di reagire, avendo una piena coscienza che l’architettura dell’Europa confederata, così com’è, non è in grado di sostenere lo scontro.

Fino a qualche settimana fa personalmente ritenevo che un ministro delle Finanze unico, installato nell’eurozona, fosse il primo passo da compiere per avviare una politica di crescita sociale ed economica  con le conseguenze politiche che quest’innovazione avrebbe comportato.

Gli ultimi avvenimenti non indeboliscono affatto quell’obiettivo che Mario Draghi da tempo chiede e che ha per ora parzialmente sostituito con la politica economico-monetaria adottata dalla Bce. Ma ora occorre affiancare all’obiettivo economico-monetario un altro che mi permetto di indicare alla politica europeista: la creazione di un ministro dell’Interno unico per tutta l’Unione europea ed anche un ministro della Difesa e degli Esteri.

Quello dell’Interno è il primo e il più necessario: significa una sorta di polizia federale (l’Fbi) con competenze sull’unificazione dei Servizi segreti, l’abolizione dell’autonomia nazionale per quanto riguarda i confini interni, il ripristino immediato del patto di Schengen.

So che su questa strada ci sono già da tempo il presidente Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano e Laura Boldrini. Sono certo che sarebbe favorevole anche Mario Draghi  sebbene si tratti di un’innovazione che non riguarda direttamente le sue competenze. E penso che lo sia anche Matteo Renzi, sulla cui politica europea desidero spendere qualche parola.

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Matteo Renzi ha scritto qualche settimana fa un documento del quale in queste pagine si è ampiamente parlato, nel quale si descrive dettagliatamente il rafforzamento necessario dell’Unione europea, con un’ipotesi di federazione e, tanto per cominciare, con la creazione di un ministro delle Finanze unico nell’eurozona. Il documento è di nove cartelle, divise in vari settori che concludono appunto col ministro  delle Finanze europeo. È stato inviato a tutte le Autorità europee, nessuna esclusa e, per illustrarlo anche alla parte politica che Renzi guida nella sua funzione di segretario del Pd, ha convocato a Parigi il Partito socialista europeo cui ha illustrato il documento in questione.

Non è stato, quest’impegnativo documento, un segno di continuità; Renzi era stato per quasi due anni il fautore di una autonomia nazionale piuttosto spinta e la sua dialettica sia verso la Commissione europea, sia verso la potenza egemone della Germania, era stata l’accentuazione dell’autonomia dei governi nazionali.

Ad un certo punto, probabilmente dopo una più attenta considerazione dei fatti, la sua politica europea ha cambiato profondamente direzione ed è quella che abbiamo descritto. Non credo che dipenda da quanto sostiene il nostro giornale, ma ho preso atto con legittima soddisfazione che ora le nostre posizioni coincidono e voglio sperare che coincideranno anche ora sulla proposta di un ministro dell’Interno unico e di un’unica polizia federale.

Apro metaforicamente una parentesi per dire che questa concordanza non piace affatto al mio comico d’elezione, Maurizio Crozza. Mi dispiace molto, ma pazienza, non manco mai alle sue trasmissioni e così continuerò a fare ogni venerdì sera anche se ora ripete troppo spesso vecchi sketch già visti. Chiusa parentesi.

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Concludo. Accettare (sotto ricatto) che la Turchia di Erdogan entri nell’Unione europea sarebbe un fatto di inaudita gravità. Una dittatura sanguinaria,  con una storia di secoli alle spalle, che hanno visto quella nazione in guerra contro l’Europa, è un fatto inaccettabile.

Le armate turche nel Cinquecento si lanciarono alla conquista dell’Europa incominciando dalla Grecia e poi dai Balcani, dall’Ungheria e dall’Austria ed arrivarono addirittura a Vienna. Lì ci fu una battaglia campale, dove l’Europa era difesa da una coalizione piuttosto male armata, con un solo esercito valido, composto da truppe polacche e guidato dal re di Polonia.

Per fortuna i turchi furono sconfitti e arretrarono ma la loro presenza nell’Europa balcanica e in tutto il Maghreb africano durò ancora per secoli, sempre e comunque contro l’Europa.

Capisco che col tempo i Paesi cambiano, ma la Turchia di Erdogan è purtroppo la peggior Turchia e con l’Europa ha poco anzi nulla da spartire.

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Ricordando  venerdì santo l’insegnamento di Gesù, papa Francesco ha ancora una volta ripetuto che c’è, per i credenti di tutto il mondo e di tutte le religioni, un unico Dio che ha creato tutto e crea in permanenza. Tutte le persone umane sono state da lui create e tutti dunque debbono essere tra di loro fratelli.

Ha anche nominato le varie religioni: i cristiani, gli ebrei, i musulmani, Buddha, le divinità induiste, quelle cinesi e giapponesi. Il Dio è sempre unico anche se i suoi nomi sono diversi, diverse le Scritture, le dottrine e la catechesi. Diversi, ma affratellati.

Questa è la grande lezione di Francesco, interprete di un Dio che dispensa la misericordia come il suo dono principale, anzi unico, a tutta l’umanità senza distinzione alcuna.

Questa voce insegna il bene e come tale tutti sono chiamati ad ascoltarla.

Grazie Francesco, le tue parole sono essenziali per uscire dal labirinto in cui versa il mondo.

*larepubblica / Un ministro dell’Interno europeo per battere il terrorismo di  EUGENIO SCALFARI

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