L’allarme di Calenda su Mediaset, rassicurazione su MPS

Intervistato da Marco Zatterin il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda avverte che “Bollorè rischia...

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Intervistato da Marco Zatterin il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda avverte che “Bollorè rischia di paralizzare Mediaset” riferendosi alla scalata del gruppo francese. Su Mps assicura che “l’intervento è in regola con l’Europa” ed a proposito del sistema bancario sottolinea il ruolo “cruciale di Intesa Sanpaolo”. Per il ministro il 2017 “sarà l’anno in cui dobbiamo sconfiggere i populismi e salvare le riforme”.

Calenda: “Il 2017 sarà decisivo per sconfiggere i populismi”

Il ministro dello Sviluppo: Bolloré rischia di paralizzare Mediaset. Su Mps c’è l’ok Ue, ruolo cruciale di Intesa nel sistema bancario

Carlo Calenda vede nel 2017 «l’anno in cui dobbiamo salvare i nostri Paesi dai populismi», perché in pericolo c’è l’Europa e il destino di chi ambisce a riformare per crescere. Poi ci sono i casi italiani del momento, Alitalia e Mps da salvare, e anche Mediaset da tutelare dall’offensiva di Bolloré: «C’è il rischio che si faccia questa operazione per paralizzare la governance di una azienda importante in un settore delicato». Al ministro dello Sviluppo economico confermato da Paolo Gentiloni pare anche il momento in cui sfidare le diseguaglianze e ridare abbrivio alla crescita con gli investimenti.

È una sfida globale, convinto com’è che i governi debbano superare «la paura della modernità» e battere chi predica «la fuga dalla realtà come Beppe Grillo».

Ministro Calenda, che Paese è quello in cui lo Stato salva una banca, le banche salvano la compagnia di bandiera e il colosso privato della tv rischia di diventare straniero?  

«Possono sembrare circostanze straordinarie, ma non lo sono. L’Italia interviene in una banca mentre altri Paesi, in epoche precedenti, sono intervenuti sull’intero sistema. Lo abbiamo fatto dopo esserci rivolti al mercato e perché si trattava del terzo istituto del Paese: non potevamo esporre clienti e risparmiatori al rischio di una risoluzione. Alla fine siamo stati quelli che più hanno aderito alla sostanza delle regole europee».

Un bene o un male?

«Si può discutere se sia bene o male. Ma non sul fatto che non si tratta di una anomalia».

Il governo ha stanziato 20 miliardi. Possono saltare i parametri sui conti pubblici negoziati con l’Europa?  

«La procedura che ha portato all’intervento pubblico è stata seguita passo-passo dalla Commissione. L’intervento principale è considerato fuori dal Patto di Stabilità. Ci saranno maggiori interessi, ma è una cifra contenuta. Oltretutto, è una “una tantum” che non pesa sulla dinamica del deficit strutturale».

La manovra di Vivendi su Mediaset vi dà dei pensieri.

«Dobbiamo rispettare le regole del mercato, accettare il caso spesso positivo e normale che uno straniero acquisti una azienda italiana. Ciò che non è normale, però, è come si sono verificati i fatti sinora. E’ stato tutto molto opaco e le intenzioni poco chiare».

Dunque non vi piace.  

«Il governo ha sui metodi di questa operazione un parere negativo, anche se questo non vuol dire che intendiamo stravolgere le regole del mercato. O che ci sarà un intervento pubblico».

Una mediazione pubblica c’è stata con Alitalia.  

«Il piano industriale non ha funzionato, gli azionisti hanno lavorato con le banche finanziatrici, e il governo ha dato una mano, ben consapevole che non era una azienda statale ma certamente fondamentale per un paese che vive di turismo e “made in Italy”. Abbiamo agito da facilitatori e continueremo a farlo».

A sentire lei, è tutta ordinaria amministrazione.

«Per nulla. Mps, Alitalia e Mediaset sono fattispecie differenti e straordinarie che, però, ritroviamo dappertutto. Il governo tedesco ha avuto una discussione accesa sui cinesi che hanno fatto shopping nel settore meccanico. Le difficoltà delle linee aeree sono all’ordine del giorno in molti paesi, per non parlare degli interventi sulle banche, massicci in tutta Europa. Parliamo della normalità di un momento anormale. Anormale, perché vengono al pettine nodi che la crisi ha esacerbato».

Intesa Sanpaolo e Unicredit sono molto attive nel backstage dei grandi affari. C’è un ritorno delle banche al timone dell’economia?

«No, i casi sono differenti. L’unico intervento di sistema delle banche è avvenuto con Atlante. Detto questo, non vedo banchieri italiani che abbiano velleità di playmaker, se non nel senso più positivo, assumendosi responsabilità in situazioni difficili. Non è una anomalia neanche questa. Penso a Banca Intesa che, in questo momento, ha un ruolo importante, essendo una delle banche più forti d’Europa, guidata da un management capace».

Intanto il paese non cresce.  

«Si tende a dimenticare che l’Italia è uscita dalla crisi, ma non ha recuperato neanche lontanamente quanto perso dal 2007 al 2014. E’ successo perché nei quindici anni precedenti il governo Renzi ci si è occupati di tutto meno che di economia. Nella Seconda Repubblica è stato un tema marginale. Ci siamo occupati di conti pubblici nei momenti di crisi, ma di crescita e politica industriale non se parlato. Questo ci ha indebolito».

Che fare?  

«La prima leva parte dal dato che ci preoccupa di più: gli investimenti. Sono crollati, In Italia, del 30% rispetto a prima della crisi. Nasce qui il piano di incentivi fiscali automatici, “Industria 4.0”, che punta sulle nuove tecnologie e la meccanica tradizionale. Il secondo elemento è la riforma del lavoro, il Jobs Act è stato produttivo. L’occupazione comincia a riprendersi. Non basta, ma è un segnale chiaro».

Ci sono talenti che volano e aziende bloccate. Come mai?

«Quando è cominciata la crisi, il sistema era già fratturato. L’Italia era già il paese in Europa con più divari: geografici, generazionali, imprenditoriali. Crisi, globalizzazione e innovazione tecnologica hanno ampliato il soldo fra vincitori e vinti, così che oggi non manca solo la crescita, ma si pone l’esigenza di rimettere in moto il paese. Le diseguaglianze sono aumentate, fra ricchi e poveri, piccoli e grandi, nord e sud, internazionalizzati e no. Abbiamo perso il 25 per cento di base industriale mentre l’export batte ogni record».

Che differenza c’è fra il governo Gentiloni e quello Renzi?  

«C’è continuità sostanziale di linea politica e di persone. Renzi e Gentiloni rappresentano la stessa cultura riformista. Molto è però cambiato dopo il referendum che avrebbe finalmente aperto la Terza Repubblica. Non è andata così. Il mondo nuovo è difficile da capire e certamente abbiamo commesso molti sbagli. Il punto è che non mi sembra una soluzione tornare alla prima repubblica, dobbiamo trovare un modo diverso per coinvolgere le persone su un’agenda che deve dare l’impressione di essere fatta non solo per le eccellenze per chi ce la può fare».

Tutti dicono che il governo non dura.  

«Non so se dura o no. Quello che conta è che sinché dura deve mantenere un’agenda ambiziosa. Dobbiamo vincere la paura della modernità governando il cambiamento e investendo. In tutto l’Occidente la politica è divisa in due campi: chi vuole affrontare il futuro e chi pensa di poterlo chiudere fuori della porta. Il riformismo accomuna Angela Merkel con Renzi e Gentiloni. L’alternativa è il populismo. O, nel caso italiano, la fuga dalla responsabilità e dalla realtà rappresentata da Beppe Grillo».

Non sarebbe ora di introdurre il salario minimo?  

«Se ne può discutere, ma è piuttosto ora che in Italia ci sia più salario legato alla produttività. Ed è anche ora di avviare un ragionamento serio sul rapporto tra apertura di mercato e tutele. Nel caso dei call center, che sono l’anello più debole della struttura produttiva, le delocalizzazioni spesso spinte dai grandi committenti alla ricerca di risparmi marginali è una piaga su cui siamo intervenuti duramente con la legge di Bilancio».

Fra economia e campagne elettorali, il 2017 si annuncia un anno da paura per l’Europa.  

«Sarà da paura davvero per l’Europa e l’Occidente che vivono la crisi più grave dagli anni Trenta, una crisi di fiducia che colpisce la classe dirigente e mina le relazioni globali. Vedo con preoccupazione il ritorno al protezionismo che è cosa ben diversa da una governance più equilibrata della globalizzazione. Difficile vedere progressi nella costruzione europea per il 2017, mentre sarà fondamentale dare spazio di manovra ai governi nazionali per poter vincere le sfide elettorali col fronte populista».

Roba da Rischiatutto.  

«È l’anno di un “Whatever it takes” che ridia forza alla componente europeista della società. Immigrazione, sicurezza e investimenti sono le priorità: la Commissione dovrà aiutare a affrontare questi temi invece che scegliere il galleggiamento tra i veti dei singoli stati. L’anno prossimo si deve lavorare perché col 2018 si possa ripartire. L’anno del rilancio. O l’anno in cui ci sarà solo il grande mercato unico. E poca Europa intorno».

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