Povera Italia, tanto debole con i potenti ed ingiusta con i deboli

Povera quella Nazione nella quale il popolo percepisce sempre più la sua debolezza verso i...

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Povera quella Nazione nella quale il popolo percepisce sempre più la sua debolezza verso i potenti e la prepotenza verso i deboli tanto da portarlo a non averne più stima e fiducia. Ed è in questo clima, in questa convinzione per niente peregrina o completamente errata, che sorgono situazioni e casi come quello della 13 di Melito; di persone sbattute in galera per aver “rubato”, per fame, una confezione di wafer; di pensionati al minimo che già fanno la fame ai quali viene sottratta la pensione perché magari NON hanno dichiarato al fisco qualche modestissimo guadagno extra (foss’anche frutto di elemosina) per cui restano senza alcun reddito a fronte di altri che, poverini, pur guadagnando minimo 10.000 euro al mese, RUBANO e/o NON dichiarano redditi milionari al fisco e restano impuniti avendo anche la faccia tosta di giustificarsi con un: “non ce la facevo a vivere con lo stipendio” (poverini).

E sono queste cose che fanno la differenza e che portano a ritenere che, in questa italietta sempre più debosciata, l’importante è rispettare una sola regola: se vuoi delinquere puoi anche farlo, ma attenzione! Devi farlo alla grande! Se rispetti questa regola te la cavi sempre, a prescindere da quello che per gli altri, i  fondamentalmente onesti ma di fatto ‘fessi’ per questa società, resta reato: omissioni, furti, abusi, pedofilia, truffe e quant’altro di lercio è possibile fare. Ed attenzione: la collocazione geografica è ininfluente: è una regola che vale, ed è in uso, dalle Alpi alla Sicilia e oltre. Che dire se non, con Battiato, POVERA PATRIA!

Ma vediamo ora cosa riferisce Repubblica sul caso della 13enne di Melito sviluppatosi proprio in questa percezione dello Stato e del suo essere prono con i ‘potenti’, più precisamente: i ‘ricchi’!

La 13enne di Melito raccontò gli abusi in un tema ma la madre li coprì

L’inferno descritto dalla ragazza: “Dopo questi ricatti non avevo più stima di me stessa”. Ma la madre dalle intercettazioni sembra solo preoccupata dell’opinione del paese

“Tanto non cambierà niente, perché loro hanno i soldi e non paga nessuno, stai tranquillo, sai chi pagherà? Quelli che hanno meno soldi. E quelli che ce li hanno non pagheranno”. Nessuna fiducia nelle istituzioni, nella giustizia, in un riscatto. Nessuna speranza di un futuro migliore. C’è solo rassegnazione a un destino da schiava nelle parole della madre della ragazzina di tredici anni di Melito Porto Salvo, per anni violentata e ricattata da sette e più uomini molto più grandi di lei. Una vicenda orribile che ha portato all’arresto di otto persone.
Un inferno che la madre ha scoperto per caso, dopo aver trovato la brutta copia di un tema, in cui la ragazzina racconta la sua rabbia per essere stata lasciata sola da due genitori “troppo impegnati con i loro compagni, con le loro cose”. Ma non rivela nulla di come quella solitudine si sia trasformata in un limbo in cui ha incontrato chi l’ha trascinata all’inferno. Quello che la spinge a dire alla psicologa del tribunale “dopo questi ricatti, dopo queste cose io non avevo più stima di me stessa completamente, perché io, in questi momenti, avevo pure momenti.. queste crisi, queste cose.. dicevo sempre sono una merda, cose così”. In quel periodo – spiega – si tagliava  gambe e braccia con i coltelli, c’erano giorni in cui non riusciva a mangiare o a smettere di piangere, era inutilmente aggressiva e indisponente con tutti, amici, compagni, professori. Si sentiva una cosa, vuota, inutile.

Anni di ricatti e abusi, l’hanno indotta a quella che il giudice definisce “recalcitrante rassegnazione” a una quotidiana violenza. Anni in cui foto mandate per gioco sono divenute strumento di ricatto e violenza psicologica, l’hanno portata a considerare quasi scontato l’abuso. Così, quando quello che lei credeva il suo fidanzato ma la usava come un pappone, passava a prenderla e si dirigeva a casa di questo o quell’amico, l’adolescente sapeva già che sarebbe stata “usata” da tutti. Il figlio del boss, quello del maresciallo, il fratello del poliziotto con il padre vigilantes in servizio al palazzo di giustizia, il cugino, il parente, l’amico, quello chiamato per portare le sigarette. “Lo immaginavo io – spiega – perché era naturale, come le altre volte che erano successe prima, era naturale, cioè non pensavo ‘andiamo a farci una chiacchierata’, era logico”. Ma non meno doloroso.
Lo aveva confidato a una cugina, qualche amica. Mai ai genitori. Solo quel tema, le ha dato l’opportunità di aprirsi come un fiume in piena con la madre. Lei, che inizialmente stizzita l’apostrofa con un “belle cose che hai scritto di noi”, di fronte alla verità che non ha saputo vedere, a quelle assenze da casa della ragazzina su cui non ha voluto indagare, non sa che fare. Informa solo i più stretti familiari. Il cognato, cui chiede consiglio, quindi l’ex marito. È lui a prendere la situazione in mano, è lui a parlare con la sua bambina durante un lungo giro in auto, durante il quale prende appunti, che poi porta – disperato – ai carabinieri. Da loro torna più volte, perché vuole che le violenze sulla sua bambina siano punite, i responsabili perseguiti, anche se già da mesi è riuscito a strappare una tregua, affrontandoli personalmente. Ma l’ex moglie frena. Dice che la ragazzina non è pronta. Anche ai professori che sono venuti a conoscenza della cosa, chiede di mantenere il più stretto riserbo, di non informare il consiglio di classe.

Per lei, ex dipendente, forse ex amante del boss Iamonte, il nemico non è quel “branco” che ha trattato la sua bambina come una cosa, buona solo per soddisfare voglie e appetiti. Ormai, il danno è fatto.  Il problema è che la cosa si sappia in giro, che gli abusi subiti dalla figlia diventino di dominio pubblico. “Poi ce ne dobbiamo andare dal paese”. E loro, magistrati, investigatori – dice, intercettata, al telefono – “si vogliono prendere i meriti di andare con le sirene, come al solito per prendersi i meriti sulla pelle degli altri? Quanto meno devono avvisare, o no? Sulla pelle nostra, perché i problemi ce li abbiamo noi, non loro”. Nella distanza fra la donna e lo Stato, rimane una sedicenne indotta a credere di non valere niente, di non essere niente, ma che adesso – promette su facebook – vuole solo andare oltre.

Sin qui l’articolo di Repubblica, ma non basta. Poi ci sono anche i ‘Lorenzo’. Questo si chiama Lorenzo Cipriani, è presidente del quartiere Porto-Saragozza a Bologna, e commenta così il caso della sedicenne di Melito:

“Questo paese andrebbe bruciato e sulla cenere bisognerebbe poi spargere il sale”.

E ancora:

Non abbiamo niente a che fare con quel paese e quelle persone. Per fortuna l’Italia non è tutta come questo paese di merda”.

 Poi cancella le parole, ma intanto sono state lanciate. Ripeto: POVERA PATRIA!

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