I due Papi contro gli estremismi: Papa Francesco e il Papa copto Tawadros

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Oggi, a tre settimane dalle stragi nelle chiese copte, Papa Francesco arriva in Egitto con la missione di rilanciare il dialogo con l’Islam e dire no al terrorismo. Durante la visita incontrerà l’imam Ahmed al-Tayyeb e Papa Tawadros II, leader della Chiesa copto-ortodossa, che in un’intervista a La Stampa dice: «Per battere gli estremismi bisogna investire nell’istruzione».

L’appello del Papa dei copti: “Patriottismo e uguaglianza contro gli estremismi”

Tawadros II: “Siamo cittadini non una minoranza. Investire nell’educazione per battere il terrorismo”

ALESSANDRIA D’EGITTO – Alessandria d’Egitto. Cittadini, non minoranze. Nazioni, e non sette. Per Papa Tawadros II, patriarca della sede di San Marco, leader della Chiesa copto-ortodossa, è questo l’antidoto a quell’estremismo che ha colpito nella domenica delle Palme due chiese in Egitto. Tawadros incontrerà nelle prossime ore al Cairo, alla Moschea-Università di al-Azhar, prestigiosa istituzione dell’Islam sunnita, Papa Francesco, Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, e il grande imam Ahmed al-Tayyeb, in una riunione senza precedenti nel dialogo tra cristiani e musulmani. Nella sua residenza estiva, a Sud di Alessandria, Papa Tawadros, la barba lunga grigia, l’abito nero ricamato d’oro, accoglie famiglie e fedeli.

Sua Santità, quali sono simbolismo e messaggio di questa riunione di fedi?  

«L’Egitto è descritto nella storia come la Terra della pace, nel periodo faraonico, cristiano, islamico, moderno. Gli egiziani vivono attorno al Nilo, bevono la sua acqua, ne traggono una natura di moderazione. Per questo, l’Egitto sarà molto contento di ospitare il messaggio di pace che accompagna la visita del Papa di Roma».

È una riunione delle religioni contro il terrorismo?  

«Senza dubbio è un messaggio forte, anche se simbolico, perché non si combatte il terrorismo solo con gli incontri, ma con l’attivazione di misure collettive. Il terrorismo è un pericolo per tutti i Paesi».

L’incontro arriva mentre il numero dei cristiani d’Oriente, in fuga dalle violenze jihadiste, diminuisce. Qual è il ruolo della Chiesa copta in questo momento difficile?  

«I cristiani torneranno in Medio Oriente quando la situazione si stabilizzerà: l’uomo non può sbarazzarsi della sua nazione. Qui ci sono i nostri monasteri, le nostre chiese. Chi lascia questa regione lascia un’eredità grande, perdendo molto. Quello dei copti è un ruolo storico».

A marzo ad al-Azhar Lei ha parlato di responsabilità dei leader religiosi nella lotta all’estremismo, che cosa significa?  

«L’educazione è chiave di qualsiasi trasformazione. Ci sono elementi nei metodi educativi che non aiutano a rafforzare l’idea di cittadinanza e uguaglianza. Purificare il metodo educativo, formare gli insegnanti è il primo passo da fare. Occorre investire su un metodo educativo patriottico, che metta al centro la nazione, non settario».

L’idea di cittadinanza opposta a quella di comunità religiosa è al centro del dibattito in Egitto. Benché inclusa nella Costituzione, le minoranze soffrono. Come renderla effettiva?  

«Da 60 anni i copti sono esclusi a certi livelli dalla partecipazione politica. Dopo le rivoluzioni del 2011 e 2013 abbiamo cercato di affrontare la questione della cittadinanza con la nuova Costituzione. In Parlamento ci sono 39 deputati cristiani (un numero più alto rispetto al passato, ndr). La presenza alle messe di Natale del presidente al-Sisi prova come lo Stato cerchi soluzioni. Ed è passata una legge sulla costruzione di chiese (il permesso di costruirle, estremamente difficile da ottenere, era gestito dallo Stato, ora dai governatorati locali, ndr)».

Tra i copti c’è chi ha criticato la legge come un compromesso debole con il governo.

«Prima non c’era una legge, averne una è già un successo. Per avere una risposta dal governo servivano anche 20 anni. Ora 4 mesi. La pratica mostrerà l’efficacia della legge e se occorre modificarla, non esiterò».

Sono passati sei anni dalla rivoluzione del 2011, qual è il suo bilancio?  

«Si tratta di operazioni di riforma chirurgica sul corpo dell’Egitto. La rivoluzione del 2011 è cominciata bene, dopo tre giorni è stata rubata da altri».

Chi sono gli altri?  

«Le forze dell’Islam politico che hanno voluto governare l’Egitto: gli egiziani amano la religione, ma non vogliono essere governati dalla religione. La rivoluzione del 2013 ha aperto un nuovo periodo».

Non tutti in Egitto concordano nel definire il 2013 una rivoluzione. Attivisti, gruppi per i diritti umani accusano al-Sisi di reprimere il dissenso.  

«È stata una rivoluzione popolare, protetta da un esercito popolare. Chi parla della questione dei diritti umani dall’estero parla di un numero limitato di persone in prigione dopo processi, ma si scorda di menzionare malattie e povertà nel Paese. Inoltre, oggi siamo nel mezzo di una guerra contro il terrorismo, che richiede misure forti per la pace».

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