Il Pacifico sarà la frontiera più difficile per l’amministrazione americana

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Il Pacifico, spiega nella sua analisi Gianni Riotta, sarà la frontiera più difficile per l’amministrazione americana che non è riuscita a ottenere alcun impegno dalla Cina di Xi.

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 «La supremazia americana nel Pacifico non è un caso, dovuto alla Seconda Mondiale… le sue radici intellettuali vanno indietro, fino a un pugno di pionieri del New England che viaggiavano in Estremo Oriente con Bibbia, ginseng e visioni imperiali…».

Il presidente Trump chiede al suo staff di «fornirgli informazioni audio e video», non ama i ponderosi tomi dei briefing, ma stavolta è un peccato, perché nelle ore di tensione con Corea del Nord, Cina, Russia su Pacifico ed Artico, queste righe sono importanti. Appartengono a un tomo di ben 760 pagine, pubblicato un mese fa dallo studioso Michael Green, «By More than Providence», analisi di due secoli di strategia Usa nel Pacifico, breviario perfetto mentre una squadra navale americana, con la portaerei Carl Vinson, cancella la sosta in Australia e incrocia verso la Corea. È show di forza per persuadere il regime di Kim Jong-un a rallentare la corsa a un missile balistico capace di colpire gli Stati Uniti, dopo tre recenti test, compreso lo Scud del 5 aprile. Dopo il raid in Siria, condotto durante il summit col presidente cinese Xi Jinping, Trump va alla sfida asiatica. Finora nulla, né l’apertura a Pechino di Obama, né le sanzioni contro Pyongyang, hanno avuto effetti, anzi, uccidendo con il gas tossico il fratellastro, Kim alza la posta, ribaldo.

Portaerei USS_Carl_Vinson_(CVN-70)

Il Pacifico sarà, per l’amministrazione Trump, la frontiera più difficile. In un altro saggio indispensabile, uno dei cervelli strategici di Harvard, Graham Allison, si chiede se America e Cina siano «Destined for war», destinati alla guerra, e cita la «trappola di Tucidide», antica lezione dello storico greco per cui i due poteri dominanti di un’era, ai suoi tempi Sparta e Atene, sono per fatalità condannati a battersi. Trump non è riuscito ad ottenere alcun impegno da Xi, né sulla Corea, riottoso vassallo cui Pechino taglia le importazioni di carbone per ricondurlo, invano finora, a ragione, né sul commercio. Xi non ha apprezzato il raid contro Assad durante il vertice, e ha ordinato critiche recise.

Che secolo sarà dunque il XXI? «Il secolo dell’Asia», come auspica da Singapore Kishore Mahbubani? L’America manterrà il controllo sulle vie commerciali del Mar Cinese Meridionale e su quelle che il disgelo dei ghiacci apre nell’Artico, dove malgrado l’Onu accorrono le armi ma gli Usa hanno solo due rompighiaccio contro la flotta di Mosca e il riarmo cinese? Condominio Washington-Pechino, dopo Washington-Mosca? O la «trappola di Tucidide» scatterà con la guerra?

Gli aspetti tragicomici della Nord Corea mascherano il pericolo macabro. Un rapporto del Council on Foreign Relations, noto al segretario Tillerson, al ministro della Difesa Mattis e al consigliere McMaster, stilato dall’ex capo di stato maggiore Mullen con l’ex senatore Nunn, rivela, a sorpresa, che «la pazienza strategica» con la Corea del Nord, affidarsi solo a diplomazia e sanzioni limitandosi a fornire difesa antimissili alla Corea del Sud, ha fallito e lascerà presto Kim armato di testate nucleari, bersaglio Usa e alleati. Il dossier chiede «maggiore cooperazione» alla Cina, ma «se fallisse» questa opzione, non «resterebbe che alzare la risposta militare e politica, d’intesa con Corea del Sud e Giappone».

Parole drammatiche, ma serie. Se l’America mollasse il Pacifico, ogni paese, dal Vietnam alle Filippine (sotto Duterte già riavvicinate a Pechino), cadrebbe sotto l’egemonia cinese. Senza un vera proposta strategica – anche con la cooperazione per lo sviluppo, fallita da Obama e che la Cina persegue invece con successo – quando Washington dovrà decidere come disarmare l’arsenale nucleare di Kim, potrebbe ritrovarsi sola, e senza tempo davanti.

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